
Fiore di Roccia – un libro di Ilaria Tuti
Come un paziente archeologo, Ilaria Tuti, con una tessitura di parole che fanno rumore ed hanno il sapore di un’ esperienza diretta, ricompone storie, le libera dalla polvere del tempo, rendendole eterne. In queste splendide pagine ci racconta la storia quasi sconosciuta delle Portatrici carniche, donne che, durante la Prima Guerra Mondiale, si trasformarono in un corpo ausiliario addetto al rifornimento del fronte italiano dislocato al confine con l’Austria, in una zona impervia delle Alpi Carniche, fatta di sentieri e pietraie dove neppure i muli potevano essere utilizzati: “Per la prima volta nella storia del nostro popolo, le gerle che per secoli abbiamo usato per portare i nostri infanti, i corredi delle spose, il cibo che dà sostentamento, la legna che scalda corpi e cuori accolgono strumenti di morte: granate, munizioni, armi…….”.
Carnia, 1915
E’ scoppiata la guerra e a Timau, come in tutta la valle del But ,sono rimaste solo donne e bambini e ci sono solo donne e bambini nella chiesa ad ascoltare l’appello del prete : “ La voce del prete ha tremato invocando il nostro aiuto, e io so perché. Prova vergogna. Sa che cosa ci sta chiedendo. Sa che cosa significa salire questi pendii impietosi, per ore, e farlo con le granate che tuonano come l’ira di Dio sopra le teste. Accanto a lui, l’ufficiale ci fronteggia senza mai incontrare con lo sguardo i nostri volti. Dovrebbe farlo. Si renderebbe conto di ciò che gli sta davanti. Lupe stanche, cuccioli affamati. Si renderebbe conto del branco morente che siamo.”
E’ così che Agata, protagonista e io narrante, e le sue amiche, accetteranno di fare da collegamento con il fronte alpino scalando e scendendo ogni giorno da quelle dure montagne che però conoscono così bene, armate solo dei loro scarpetz leggeri: “… gli scarpetz leggeri fanno presa sul ghiaino, si flettono assumendo la forma dei sassi, e io divento un tutt’uno con la montagna. Questo è il modo in cui la mia gente la affronta da secoli, mi dico. Sono giunta dove scalatori esperti non sono riusciti ad arrivare. Gli scarponi dei soldati impareranno a rispettare queste calzature povere, fatte di strati di vecchi panni cuciti assieme con filo di spago..”
Agata andrà incontro così ad un mondo, quello della guerra, a lei normalmente precluso come a tutte le donne. Un mondo che lei non conosce e che le risulta inviso e incomprensibile nel suo giustificarsi con l’esistenza di un nemico e nel ridursi a morte e distruzione. “Chissà che cosa penseranno i soldati vedendoci arrivare al fronte intonando strofe d’amore, le lunghe gonne del colore di corolle, i capelli sfuggiti ai fazzoletti. Donne che non sanno fare la guerra, che non hanno titoli di studio per capirla. È un pensiero che spinge il ritmo dei miei passi, che solleva le membra sopra i macigni e mi fa avanzare con un ardore che sconfina nella rabbia..”
Ma giorno dopo giorno, quei soldati abbarbicati sulle montagne per difendere ad ogni costo la Patria, in qualche modo, inaspettatamente, faranno breccia nelle sue convinzioni che credeva granitiche, fino a risvegliare in lei pari coraggio e patriottismo, arrivando infine a sentirsi ed essere percepita a pieno diritto parte di di quel gruppo di soldati: “È come se la morte ci avesse chiamate alle armi per difendere la vita. Non possiamo attendere, né affidarci alla speranza. A volte penso che siamo noi la speranza.”
Ma su una cosa è intenzionata a non cedere : non perdere l’umanità sull’altare dell’odio per il nemico: “.. È solo montagna, sono solo uomini. Uomini che hanno fame, che hanno paura, che hanno nostalgia di casa, e che devono uccidere, come i nostri..” E non cederà, anche a costo di mettere in gioco la sua stessa sopravvivenza: “Ho scelto di essere libera. Libera da questa guerra, che altri hanno deciso per noi. Libera dalla gabbia di un confine, che non ho tracciato io. Libera da un odio che non mi appartiene e dalla palude del sospetto…”
In “Fiore di Roccia”, Ilaria Tuti parte da una storia poco conosciuta per mettere a fuoco un tema che le sta a cuore e che ritroviamo anche in “Come vento cucito alla terra”, ovvero il contributo poco conosciuto delle donne durante la prima guerra mondiale e di come furono proprio le conseguenze del primo conflitto del Novecento a far fiorire i primi semi della questione femminile, intesa come emancipazione della donna dal ruolo assegnatole dalla società patriarcale. E lo fa regalandoci la felice suggestione che anche in guerra si possa restare umani e che l’apporto di un mondo, quello femminile, forgiato da sempre nella cura e nell’attaccamento alla vita, possa riuscire, seppur per vie tortuose, a fare da contraltare e a convivere , depurandoli dalla retorica guerresca, con i “valori” militari dall’eco tipicamente maschile.