
L’acqua del lago non è mai dolce di Giulia Caminito
Recensione di Beppe Orlando
“Mia madre allora siede per terra a gambe incrociate, il vestito di lino le sale sulle cosce bianche, le mani sopra la testa e dice: io sono qui, sono qui per la mia casa. Loro la sollevano per braccia e gambe, la camicetta si apre e mostra un reggiseno senza ferretto, seni gonfi, la gonna si strappa e spuntano le sue mutande, mia madre scalcia e grida come fiera spietata. E io è come fossi lì a guardarla, la giudico e non la perdono.” Nell’incipit del romanzo di Giulia Caminito c’è tutta l’ambivalenza del legame di Gaia con la madre, simbolo di resilienza , vera ancora di salvezza e al tempo stesso memento dello stigma, ambivalenza di un’osmosi che costituirà il motivo conduttore della storia. Gaia vive di “mancanze” , le manca tutto. Tutto quello che serve per non stare sempre sott’acqua a nascondere la colpa, metter fuori la testa e guardare il mondo degli altri senza vergogna. Le manca il corredo iniziale di una vita normale, quello che ti fa partire alla conquista del mondo a pari condizioni. Antonia, la mamma, “che di lavoro pulisce le case degli altri” ” porta sulle spalle la responsabilità di una famiglia composta da un marito disabile, “un uomo burbero che si è trasformato in accessorio ingombrante e faticoso e quattro figli di cui due gemelli minuscole creature chiassose che dormono in un enorme scatolone pieno di coperte appoggiato sul tavolo della cucina di una casa di quattro metri per cinque che prima di loro era dominio degli scarafaggi di qualche topo e di molte siringhe gettate dalla strada.” Antonia è una donna ostinata e combattente. Sa quello che è giusto e si batte per averlo, sbandierando continuamente senza pudore la propria condizione, facendo il possibile e l’impossibile. Sarà proprio questa sfrontatezza , l’esposizione della loro specifica nudità, uno stato di privazione ribadito costantemente e che diventerà la matrice della loro quotidianità anche quando riescono ad ottenere l’assegnazione di una casa più grande e successivamente trasferirsi in una piccola città sulle rive del lago di Bracciano, a plasmare il carattere di Gaia. Sarà proprio qui, in quelle acque mai dolci, che Gaia vivrà sulla propria pelle le difficoltà di un processo di integrazione ed accettazione, aggravato da quel senso di inadeguatezza che l’accompagnerà sempre come un’ombra rivelandosi alla fine l’unico compagno fedele e sarà qui che conoscerà un moto dell’anima fino ad allora sconosciuto, una rabbia sublimata in abnegazione allo studio, alla ricerca di un’eccellenza, di una nuova diversità in grado di annullare il gap di partenza, ma che rimarrà sempre sotto traccia, rischiando di travolgerla definitivamente. In queste pagine caratterizzate da una scrittura libera e feroce capace di andare in profondità e portare alla luce l’intrico di paure, speranze, vergogne e ambizioni tradite di un’adolescente e poi giovane donna che, come tante e tanti oggi, si sente bloccata e sdoppiata in quel treno di illusioni destinate a rimanere tali o in perenne attesa del treno giusto sul quale salire, leggiamo la storia di un destino già scritto, dei tentativi di sottrarsi ad esso e di un riscatto tradito da un patto sociale non mantenuto Una storia di povertà e di umiliazioni ma soprattutto di estrema dignità. La dignità ribelle e rivendicativa della madre Antonia alla quale fa da contraltare quella declinata nell’adesione al canone dei doveri familiari e sociali di Gaia, personalissimo antidoto al veleno autodistruttivo di una rabbia vero e proprio alter ego di sé. Una storia amara che mette in scena la cifra del nostro tempo: la precarietà. Precarietà che è privazione. Precarietà che è portare il marchio della diversità. Precarietà che è abbassare l’asticella dei sentimenti, Precarietà che ti fa credere infine di meritare tutto questo