Le colpe del PD
Assistiamo in questi giorni, dopo l’esito prevedibile delle elezioni, all’altrettanto prevedibile “j’accuse” nei confronti del Partito Democratico, la cui sconfitta secondo i più, sarebbe la logica conseguenza di un partito senz’anima, incapace di farsi portavoce delle fasce più deboli della popolazione, attaccato al potere tanto da voler governare anche senza aver vinto le elezioni; un partito dell’establishment e rappresentativo solo delle fasce della popolazione più istruite e benestanti, il cosiddetto partito “ztl” .Non dico che alcune di queste osservazioni non abbiano fondamento ma per capire se i risultati elettorali del Pd ne siano la diretta conseguenza non si possono non considerare due aspetti: il contesto storico/politico degli ultimi trent’anni ed il fenomeno del populismo come approccio e collettore del consenso.
Nascita del Pd
La deriva morale e politico/istituzionale incubata negli anni 80 e rivelatasi poi negli anni 90 con le note conseguenze giudiziarie, portava alla dissoluzione del sistema politico che aveva retto per quatto decenni e alla nascita di un nuovo soggetto portatore di un macroscopico conflitto di interessi oltre che di un’opacissima genesi delle proprie fortune. Dall’incontro-scontro tra un potere politico fino ad allora immutato e quindi naturalmente conservatore ed un nuovo potentato che, già dai mezzi e dal gergo utilizzati nel suo repentino realizzarsi, rivelava la sua profonda diversità, per alcuni rivoluzionaria per altri pericolosamente eversiva, si generava la diaspora della Democrazia Cristiana che farà da incubatrice del nuovo laboratorio del centro-sinistra (Ulivo) , il quale, dopo un decennio, nel 2007 darà vita al Partito Democratico. Un partito, il Pd, nato, quindi, da un’ emergenza “democratica”. E, come in un destino ineluttabile, sarà proprio il carattere emergenziale a rappresentare , da lì in avanti, il filo conduttore delle esperienze governative che lo vedranno protagonista.
Le emergenze prima soprattutto economiche (crisi del 2008-2011) ed in seguito anche istituzionali (crisi della rappresentanza), queste ultime dovute ad una legge elettorale incapace di tradurre il voto in governabilità, hanno rappresentato, nell’ultimo decennio, il combinato disposto, la tempesta perfetta, per un paese paralizzato e incapace di esercitare il potere e quindi a rischio, ancora una volta, della tenuta democratica. Nelle ultime tre legislature e segnatamente dalla caduta del governo Berlusconi, avvenuta nel novembre del 2011 a causa della crisi di liquidità del nostro paese che se non affrontata e risolta poteva portare al default, il Pd è stato chiamato più volte, dalla Presidenza della Repubblica e nel rispetto del dettato costituzionale, alla responsabilità di condividere esperienze di governo dopo il fallimento della maggioranza costituita all’indomani del voto (2011-2019-2020) o per il mancato raggiungimento della maggioranza stessa (2013).
In tutti questi casi è stato ritenuto dal Presidente della Repubblica che il ritorno alle urne sarebbe stato, se non inutile senza la modifica della legge elettorale (2013-2018- 2019), sicuramente pericoloso stante la crisi economica associata poi a quella pandemica e al conseguente PNRR da mettere a punto e rispettare nei tempi per non perdere i finanziamenti europei (2011-2020). E se è vero che a questa chiamata di correità nel condividere le responsabilità di governo oltre al Pd rispondevano anche altre forze politiche e segnatamente la destra al completo nel governo Monti del 2011, la Lega , F.I. e i 5S nel governo Draghi del 2021, è altrettanto vero che mentre il Pd si dimostrava “fedele” agli impegni assunti, le altre forze politiche si caratterizzavano per una doppia postura votando i provvedimenti necessari nelle sedi deputate e comunicando al tempo stesso al proprio elettorato una sostanziale dissociazione da quanto votato, dimostrandosi più interessati a non perdere consenso che a governare la cosa pubblica. Governare in emergenza, infatti, costringe ad un’inevitabile compromesso che, a lungo andare, rischia di minare la propria identità e di erodere il proprio bacino elettorale stanco di vedere le proprie istanze sacrificate sull’altare di una eterna responsabilità. Mentre le altre forze politiche “risolvevano” tale conflitto virando su pozioni ambigue per presentarsi all’occorrenza (elezioni) scevri da responsabilità, il Pd finiva di conseguenza per essere indicato dalle stesse come l’unico responsabile delle scelte effettuate e soprattutto di quelle irrealizzabili e quindi l’avversario da battere (facile) per eccellenza.
Poteva, in queste circostanze, il Pd comportarsi diversamente senza deviare anch’esso sulla strada dell’irresponsabilità demagogica e populista, rinnegando la propria storia e, in questo caso sì, snaturandosi per davvero? Come avrebbe potuto non perdere elettorato, stretto come lo è stato, tra le indifferibili emergenze che richiedevano di essere affrontate senza indugio ed il rifiuto di una pratica populista che ha trovato invece un asilo quasi statutario nella forza politica (M5S) nata per reazione al Berlusconismo e che ha finito per pescare nello stesso bacino elettorale del Pd?
Ciò che è successo era inevitabile, a parer mio. Lo è stato il ruolo esercitato dal Pd in questi anni, così come le relative conseguenze elettorali. Chiediamoci, piuttosto, in che condizioni sarebbe oggi il nostro paese senza la tanto vituperata responsabilità del partito della sinistra.
Le forze di destra nelle ultime elezioni hanno conquistato la maggioranza dei seggi ma non quella dei voti ed hanno vinto solo perché il fronte opposto si è spaccato a causa della scelta irresponsabile da parte del movimento 5 stelle di sfiduciare il governo Draghi e non perché il Pd abbia perso il proprio elettorato, cosa che ovviamente è avvenuta ma che non rappresenta la causa della sconfitta elettorale. Ovviamente è giusto che la classe dirigente del Pd si interroghi su ciò che è stato e se sia possibile e come recuperare il consenso delle fasce più deboli della popolazione, quelle cioè che dovrebbero tradizionalmente guardare a sinistra, ma che sono anche le più “sensibili” alle sirene populiste, ma non vorrei che sull’onda dell’ inutile e ingiustificato autodafé al quale stiamo assistendo, si commettessero davvero degli errori, questi sì imperdonabili, come lo scioglimento del partito o il cambio del nome. Il pd rappresenta nonostante tutto un quinto dell’elettorato votante ed è il riferimento politico per un certo modo di vedere il mondo che è anche cultura , rispetto dei diritti dell’essere umano, a cominciare da quello di un lavoro capace di dare dignità alle persone e rispetto delle regole. Da questo patrimonio identitario deve ripartire, senza abiure, orgoglioso e non pentito di aver contribuito a tenere in piedi l’Italia e a fargli superare momenti veramente difficili anche dal punto di vista democratico e pronto per altre emergenze dovessero verificarsi.
Il dilemma del Pd è il cuore del nodo gordiano della politica italiana: il rapporto tra la proposta politica, la cosiddetta visione e la sua fattibilità. Il consenso conquistato con la responsabilità e la coerenza è destinato a durare, quello arpionato con promesse demagogiche e illusorie lo perdi inevitabilmente alla prova dei fatti, come dimostra la migrazione dei voti all’interno della destra che ha premiato di volta in volta chi stava all’opposizione e punito chi governava. La differenza alla fine è sempre tra responsabilità e demagogia. La prima realizza la democrazia, la seconda ce ne allontana.