Il prezzo della dignità

Il prezzo della dignità

Luglio 4, 2023 2 Di beppe orlando

Qual’è il prezzo minimo da assegnare al lavoro, affinchè non se ne tradisca profondamente la finalità più alta, che è quella di contribuire al pieno sviluppo della persona umana, cosí come previsto dall’ art.3 della nostra Costituzione? E al di sotto del quale si rischia di annullare, in un percorso a ritroso nel tempo, i due secoli di storia che ne hanno sancito l’evoluzione, da merce a diritto inalienabile?

Siamo arrivati dunque a dare un prezzo alla dignità, perchè è di questo che stiamo parlando, come se dessimo un prezzo alla libertà. Ne siamo costretti, perchè nel nostro (bel) paese lo iato tra democrazia formale e sostanziale si fa sempre più profondo, nonostante la nostra Costituzione, tanto bella, quanto disattesa.

Nove euro l’ora, è la proposta su cui si dibatte da giorni, il che significa che esistono contratti che prevedono cifre ben più basse. Per chi lavora 40 ore settimanali, si arriverebbe, se passasse la proposta, si e no, ad una busta paga minima di 1000 euro al mese. Sarebbe questo il discrimine tra il rispetto della persona ed il suo sfruttamento? Il bello (si fa per dire) è che qualcuno ritiene, nonostante il nostro, sia il paese che ha gli stessi stipendi di trent’anni fa (in Francia e Germania sono aumentati del 33%), che non sia assolutamente il caso di introdurre una tale barriera, che sia lecito offrire stipendi da fame, che ci siano imprese che prosperano tranquille sullo sfruttamento della mano d’opera se non sul lavoro nero.

In California, gli homeless si alzano al mattino dal loro cartone per andare a lavorare e vi fanno ritorno al termine del turno. È questo il modello a cui stiamo tendendo? Uno Stato sempre più a numero chiuso dove ogni giorno aumenta il numero degli esclusi?

Le democrazie occidentali hanno costruito il loro “successo” economico coniugando la libertà di impresa con il rispetto del lavoro, con il riconoscimento dei lavoratori non più come classe antagonista ma come cointeressata e partecipe del destino del progetto imprenditoriale. Cosí facendo hanno prodotto quella ricchezza diffusa conosciuta col nome di Welfare State, in un circolo virtuoso che, per non interrompersi, però, ha un’unica ed imprenscindibile condizione: il lavoro dignitoso, e nelle condizioni e nel trattamento economico.

Il lavoro (pagato il giusto) è il primo dei diritti (art.1 della nostra Costituzione), la matrice senza la quale non si possono realizzare tutti gli altri. È l’unica chiave in grado di aprire quella porta che da accesso ai diritti “secondari” come il cibo, la casa, la sanità, la cultura, il tempo libero, la cura di se stessi. In una parola, senza un lavoro che sia rispettoso dell’essere umano, non si inizia neppure quel percorso cosí necessario per sentirsi parte di una comunità, per dare un senso alla propria vita. Senza quella chiave, si resta al di qua, in un mondo di esclusi, di senza nome, in un ghetto di nuove “lettere scarlatte”.

Siamo agli albori di una nuova “rivoluzione” economica, paragonabile (per difetto?) nei possibili effetti, a quella industriale del diciannovesimo secolo, che si associerà, inoltre, a mutamenti climatici e demografici di impatto planetario. Tutto questo richiederà, per non produrre ancora più diseguaglianze, più Stato e non meno Stato, ma l’Italia sembra voler andare nella direzione opposta. Siamo cosí sicuri che alle Imprese, cosí come ai conti dello Stato, l’aumento della povertà convenga davvero?