
Recensione de “Il Colibrì”
Marco Carrera è “Il Colibrì”.
Il soprannome se lo porta dietro fin dall’infanzia a causa della bassa statura, ma l’appellativo troverà la sua vera ragion d’essere nell’età adulta perchè, allo stesso modo del Colibrì che impiega tutte le energie del suo battito d’ali per rimanere fermo, il protagonista del romanzo dedicherà tutta la sua forza interiore per non andare alla deriva, per essere un punto fermo per se stesso e per le persone che lo circondano, per “resistere alle percosse e alle ingiurie di una sorte oltraggiosa”.
L’incipit del romanzo di Veronesi, in virtù di uno stile narrativo particolare, cattura da subito il lettore inchiodandolo ad una storia che non viene raccontata nel suo svolgersi, bensì annunciata come qualcosa di inevitabilmente destinato a compiersi di lí a poco. Una sospensione temporale che, tra l’annuncio ed il compimento degli eventi, traducendosi in tensione narrativa, rappresenta la forza di questo racconto che inizia negli anni sessanta per terminare in un’immaginaria e discutibile visione futura.
La famiglia Carrera, apparentemente felice, vive nell’agio e trascorre le vacanze a Bolgheri nel cuore della Maremma in un elegante casolare ristrutturato . Bolgheri sarà per Marco il luogo della scoperta dell’amore (platonico) di tutta una vita, oltre che il proscenio di una tragedia : due eventi che saranno indissolubilmente legati.
In un continuo utilizzo del salto temporale tra un capitolo e l’altro che rischia però a mio avviso di confondere il lettore veniamo a conoscere tutti gli eventi che hanno segnato la vita del protagonista: alcuni al limite del surreale altri tragici che rappresentano delle svolte dolorose nella vita di Marco che, nonostante tutto, continuerá però a resistere senza cancellare il passato, ancorché doloroso, impegnandosi anzi nella conservazione delle “cose di famiglia” e a “tenere insieme un piccolo fragile mondo che senza di lui si sarebbe dissolto in un soffio” rappresentando un punto fermo per chi gli rimane accanto: Luisa con la quale intratterrà tutta la vita un amore epistolare, le cui lettere diventano capitoli a se stanti e trait d’union delle vicende raccontate; il fratello Giacomo , “scappato” negli Stati Uniti, anch’esso innamorato di Luisa, con il quale cercherà di ricucire una ferita legata alla morte della sorella; la figlia Adele , avuta da un matrimonio basato su di una menzogna, ed infine la bellissima nipote Miraijin che in giapponese significa Uomo del Futuro e che diventerà la ragione della “resilienza” del protagonista, quasi che quanto accadutogli fosse inevitabilmente necessario allo scopo di regalare al mondo colei in grado di salvarlo: “tutto il dolore provato negli anni diventava il basalto sul quale si fondava il mondo nuovo”. “le dolorose vicissitudini che avevano segnato la sua vita avevano uno scopo, nulla gli era capitato per caso”.
Un libro indubbiamente ben scritto e che ti cattura per come la storia viene raccontata: quel descrivere gli eventi come il risultato inevitabile della concatenazione quasi preordinata di altri fattori. Alcuni capitoli sono dei veri capolavori di intensità e tensione narrativa
Un libro potente caratterizzato da personaggi unici e dall’efficace intuizione del colibrì come metafora della tenacia e della sopportazione umana di fronte a quanto di più doloroso possa capitare. Peccato lo scivolone finale dell’Uomo Nuovo. Da quel momento il racconto perde di intensità ed il pathos generato dalla drammaticità e dalla descrizione degli eventi accaduti sfuma in una visione alquanto sconclusionata di un ipotetico futuro. Non si capisce perché l’autore abbia sentito la necessità di “nobilitare” le sofferenze del protagonista giustificandole come necessarie alla nascita di un poco credibile “uomo nuovo” descritto alla stregua di un messia-supereroe. E’ difficile dare un giudizio complessivo su questo libro. Perché se si esclude la parte dedicata all’”Uomo Nuovo” il libro è quasi perfetto, ma il dilemma sta proprio in questo: è corretto dare un giudizio parziale quando il senso della storia non può prescindere, volente o nolente, dall’appendice “futurista” che l’autore ha ritenuto così indispensabile? La risposta non può che essere una: se l’avvento della nuova umanità da un senso alle sofferenze del protagonista lo dà implicitamente a tutta l’opera rappresentandone il senso ultimo. Infatti, il messaggio che l’autore intende veicolare con la scrittura di questo romanzo sta tutto in quel capitolo dell’Uomo Nuovo, un manifesto utopico e didascalico del mondo ideale enunciato dall’autore stesso che quindi sveste l’abito del racconta-storie per vestire quelle del demiurgo. Un azzardo letterario che a parer mio vanifica purtroppo quanto (tanto) di buono è presente nel libro