“Fine pena: ora” di di Elvio Fassone
“Senza dubbio la morte è più grave della detenzione (infatti oggi ci premuriamo di contrastare quella più che questa) ma la detenzione, ove non mitigata da un trattamento educativo reale, è una morte parziale, l’asportazione di una porzione di vita, cosí come il mercante di Venezia Shylock pretendeva l’asportazione di una libbra di carne dal corpo del suo debitore insolvente….”
La storia di Salvatore, condannato all’ergastolo, e del suo Giudice e autore del libro, che, per la terza parte di un’esistenza media, intrattengono un’inedito rapporto epistolare, è la storia di un incontro impensabile, di una composizione possibile tra due esigenze all’apparenza inconciliabili: l’afflizione della pena ed il rispetto del detenuto in quanto essere umano . “ Potrà perdere la libertà per un tempo anche lungo, ma non deve perdere la dignità e la speranza”, scrive il Giudice a Salvatore nella prima delle numerose lettere. Lettere che “hanno tessuto una trama, hanno steso una fune sull’abisso, lui invitato a camminare senza paura, io in attesa sull’altra sponda, entrambi con la fiducia che l’attraversamento avrebbe avuto fine, ma ci sbagliavamo”.
Questo sorprendente libro, dotato di una notevole forza espressiva, inizia con la descrizione del maxi processo alla mafia catanese tenuto a Torino nel 1985 e l’accettazione, da parte dell’autore, della nomina a Presidente della Corte d’Assise, che significherà vivere due anni con la scorta e mettere a rischio i propri familiari. Un processo che necessariamente, visto il numero e la tipologia degli imputati, non può rispettare i canoni di un normale dibattimento: “un’estenuante partita a scacchi che insegna subito la sua verità impudica. Questa non è giurisdizione, non è terzietà, non è olimpica imparzialità. Questa è una battaglia sottile tra il previsto abuso del diritto da parte degli imputati e la programmata compressione del diritto sino a quella soglia in cui la compressione diviene negazione illeggittima, e perciò non deve essere varcata”
Sarà proprio la conduzione “umana” di quel processo ed in particolare l’istituzione di incontri con i detenuti per soddisfare esigenze estranee al dibattimento, che farà cadere il muro della sfiducia reciproca sostituita invece da un reciproco riconoscimento, ad avvicinare il Presidente della Corte ed ll più temuto degli imputati: “le volevo dire che se suo figlio nasceva dove sono nato io, adesso era lui nella gabbia; e se io nascevo dove è nato suo figlio, magari ora facevo l’avvocato, ed ero pure bravo…..”.
Alla prima lettera del Presidente, accompagnata da un libro, e scritta dopo la condanna, seguirà la risposta e cosí via per un tempo infinito. Quel piccolo gesto cambierà due vite: “quella di Salvatore e anche un pò la mia, senza i 26 anni di scambio che seguiranno, avrei concluso una carriera ineccepibile e arida come quella dei giudici di Spoon River, attori di spoliazioni umane altrui e proprie, prigionieri del ruolo. Senza quel pacchetto, Salvatore, me lo confesserà più tardi, avrebbe cercato assai prima di porre fine alla sua esistenza…”
È grazie al sostegno “umano”, e non solo, del “suo” Presidente che Salvatore decide di provare e resistere nel tentativo di diventare un altro: “questa sarà la mia vita e io la devo spendere al meglio perchè è l’unica che ho. Me l’ha detto lui. Posso sopravvivere, posso vivere anche in questo luogo. Parliamo di vita possibile, parliamo solo di quello…” , ma la sua tenacia si scontrerà e alla fine si spezzerà contro l’ottusità delle dinamiche carcerarie e della burocrazia in un eterno gioco dell’oca che lo porterà ogni volta ad iniziare da capo il percorso per ottenere i benefici di legge previsti: “Caro presidente, tanto tempo fa mi hai mandato la poesia di quel detenuto turco, che diceva vivi come se tu non dovessi morire mai . Ci ho provato, ma oggi la leggo diversa: muori se vuoi vivere davvero libero. Buona notte Presidente.”
Questa è la storia di un predestinato, come tanti: “A noi maledetti, o la tomba o la galera. Che vuole che ci aspetti, a chi nasce nel Bronx di Catania”, la cui strada è lastricata tutta di errori e di colpe non solo sue, per le quali nessuno si può chiamare fuori, compresi tutti noi, la cosiddetta opinione pubblica, che la Giustizia la vogliamo dura e pura, che la chiave della cella è da buttare via, versione moderna della “plebe” che secoli addietro riempiva compiaciuta le piazze del patibolo.
L’annoso problema delle condizioni carcerarie e dei suicidi resta sempre al palo nel dibattito politico, sia per il fatto che riguarda una cerchia ristretta della popolazione e sia perchè la soluzione del problema farebbe perdere il consenso dell’elettorato. Ma il macigno più grosso per la soluzione del problema è un problema culturale: “Tutti noi guardiamo al carcere come a una grande pattumiera…” e le profonde ed inusuali riflessioni dell’autore di questo prezioso libro, che ad uno sguardo privilegiato sul problema accompagna una profonda pietas, ce lo insegnano.
Un libro da non perdere per la capacità che ha l’autore di offrire un punto di vista inusuale e rivelatore. Una catabasi nella sofferenza e nel dolore del fine pena mai che, proprio perchè condotti per mano da un Magistrato, ci regala la suggestione della vera Giustizia che, solo dimostrando pietas e riconoscendo la dignità di essere umano al detenuto, qualsiasi reato esso abbia commesso, riesce a salvare anche se stessa: la Giustizia e la vendetta sono due cose diverse.
Viene la sera d’arancio/ sul capo mio ingabbiato/ poi scorre il vento/raccogliendo gli anni miei. La chiave tramonta/riapparendo all’alba